A Cinquecento anni dalla morte, le opere a soggetto religioso del genio vinciano nell’intervista a Timothy Verdon.
Quest’anno ricorre il 500° anniversario della morte di Leonardo da Vinci, avvenuta ad Amboise, in Francia, il 2 maggio 1519. Mentre in Italia si moltiplicano le iniziative per celebrare il genio vinciano, Vatican Insider indaga i suoi dipinti a soggetto religioso in questa conversazione con monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze.
Leonardo, che ha creato una delle massime icone dell’arte sacra, l’Ultima Cena, eseguita nel refettorio del convento milanese di Santa Maria delle Grazie nell’ultimo decennio del Quattrocento, era un uomo di fede?
«Questa meravigliosa opera indurrebbe a pensare che lo fosse. In realtà nulla, nella sua vita, conferma questa supposizione: al contrario, molti aspetti della sua biografia suggeriscono che fosse un artista appassionatamente dedito all’arte ma molto meno all’aspetto religioso dei soggetti dipinti, a differenza di un artista santo come Beato Angelico o di un artista peccatore ma profondamente credente come Michelangelo. Ci si potrebbe dunque chiedere come abbia fatto a creare l’Ultima cena e anche altri dipinti che con grande eloquenza parlano a tutti i credenti di Gesù. Ebbene, e vengo al punto centrale della mia riflessione: Leonardo (che certo non era ateo come ad esempio Perugino, autore di Madonne piissime) era un uomo poco interessato alla dimensione squisitamente religiosa mentre era invece affascinato dalla psicologia umana, dal legame profondo tra i nostri gesti e i nostri pensieri, i nostri sentimenti, quelli che lui chiamava i moti della mente: questo legame era, per Leonardo, la sicura chiave per aprire il senso dei soggetti religiosi. Quando doveva affrontare un tema religioso si volgeva senza esitazione alla dimensione umana. Nell’Ultima cena l’armonia, la perfezione anatomica dei corpi organizzati intorno al tavolo, ma soprattutto l’indagine psicologica dei personaggi, della gestualità come espressione di reazioni psicologiche assolutamente credibili creano un’opera che parla ai credenti ed esprime un contenuto centrale della fede: il cristianesimo è fede in un Dio che si è fatto uomo, un Dio che ha voluto condividere l’umano con le sue gioie e i suoi dolori, inclusa la morte».
Analizziamo dunque l’Ultima cena in questa chiave.
«In quest’opera Leonardo, come uomo del Quattrocento e al pari di altri autori fiorentini, analizza le reazioni dei discepoli: mentre però gli altri artisti avevano cercato di interpretare ogni singolo apostolo come una monade, un piccolo mondo a sé stante, Leonardo comprende che quei dodici uomini che avevano vissuto insieme, uniti nella fede in Gesù, non avrebbero reagito individualmente alle parole pronunciate dal Maestro durante l’ultima cena ma, al pari di tutti gli esseri umani, avrebbero subito interagito fra loro, avrebbero chiesto gli uni agli altri cosa intendesse dire il Signore parlando di tradimento. Leonardo quindi ci mostra non dodici monadi, come si vedono nei Cenacoli di autori quali Andrea del Castagno o Domenico Ghirlandaio, ma quattro gruppi di tre uomini, due a destra due a sinistra della figura isolata e centrale di Cristo. I tre apostoli di ogni singolo gruppo interagiscono tra loro e i gesti e le posizioni uniscono i due gruppi a destra e a sinistra presentandoci una realtà articolata che rispecchia la realtà della Chiesa, nella quale, certo, ognuno ha una reazione personale ma – poiché l’esperienza della sequela è condivisa con altri – ci si parla, si interagisce, si cerca luce nella interpretazione che offre il fratello vicino. Leonardo comprende tutto ciò in base alla sua analisi della natura umana: si può dire che per un caso felice, anzi provvidenziale, questo grande indagatore dell’umano è in grado di raccontare la drammaticità di quel momento in un modo che altri artisti, forse più convenzionalmente credenti, non avrebbero mai potuto fare. Cristo è la figura centrale dell’opera verso cui convergono i gesti dei discepoli e le linee della prospettiva della sala: attingendo all’antica tradizione religiosa dell’arte fiorentina, Leonardo prende in prestito la grande figura medioevale del Cristo seduto con le braccia distese in forma di croce, presente nel Battistero di Firenze, l’opera materialmente più grande (alta otto metri) esistente in città all’epoca, e lo trasforma nell’uomo solitario al centro della tavola che apre le sue braccia accettando la passione che lo attende: con la mano destra si muove verso un bicchiere di vino mentre con la sinistra indica un pane sul tavolo. Si comprende che Leonardo sta illustrando il momento in cui Cristo istituisce l’Eucaristia. L’accoglienza della passione si trasforma davanti ai nostri occhi nel dono che Lui dà liberamente della Sua vita offerta nel pane e nel vino. Leonardo non rispondeva a questo dono con la fede, ma lo conosceva molto bene perché faceva parte di quel secolo, di quella società ed era stato educato a comprendere il senso di questi misteri. Cristo, il cui capo inclinato è attraversato da una sottile tristezza, si mostra come uomo consapevole di andare incontro alla morte che accetta liberamente, «sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava» (Gv 13,3), “sapendo”, “accettando”, ma soffrendo umanamente, rilassando le redini dell’emotività, come dirà un contemporaneo di Leonardo, Pico della Mirandola. Il Cristo di Leonardo si trova esattamente di fronte a un altro Cristo: nel refettorio di santa Maria delle Grazie vi sono, infatti, due grandi affreschi: uno è il Cenacolo vinciano, l’altro è una grande Crocifissione eseguita da un artista milanese, Donato Montorfano, negli stessi anni in cui era al lavoro Leonardo: le due opere quindi fanno parte di un unico programma: la prima, il Cenacolo, narra il giovedì santo, la Crocifissione il venerdì santo. Leonardo collega quindi le braccia che già si aprirono giovedì sera, quando – accettando la passione – Cristo ne spiegò il senso mediante i segni del pane e del vino, con il mistero della fedeltà compiuto il pomeriggio seguente, venerdì, quando Cristo aprì le sue braccia sulla croce. La passione per l’umano di Leonardo, il suo desidero ispirato di cogliere il senso umano dei gesti di Cristo lo porta a penetrarne la figura in modo incomparabile: se Dio si è fatto uomo allora Gesù agiva come vero uomo non solo come Dio. Leonardo ci mette a contatto con il Dio che ha voluto condividere la nostra natura: in questo senso l’artista ha offerto un contributo straordinario al modo in cui i cristiani d’Occidente da allora hanno vissuto il rapporto con il Salvatore».
Quali altre opere in particolare rivelano il Leonardo fine indagatore dell’umano?
«Penso ad alcune opere mariane di grande interesse dal punto di vista religioso e psicologico. La prima, oggi conservata al museo del Louvre di Parigi, è un dipinto che probabilmente l’artista iniziò già a Firenze prima di trasferirsi a Milano nel 1481, la cosiddetta Vergine delle rocce: mostra Maria seduta davanti a una grotta alpestre; di fronte a lei vi sono due bambini: Gesù, seduto accanto ad uno stagno, nell’atto di benedire il piccolo Giovanni Battista inginocchiato a mani giunte. Leonardo, che da buon fiorentino conosceva tutte le storie riguardanti il Battista, patrono della città, sta mostrando il momento, raccontato nelle leggende, in cui, durante la fuga in Egitto, i due bambini si sarebbero incontrati e avrebbero parlato della futura passione di Gesù. Per Leonardo dunque, Giovanni, che da adulto annuncerà Cristo “agnello di Dio”, già da bambino avrebbe intuito la morte del Signore e ne avrebbe parlato al piccolo Gesù il quale, benedicendolo, avrebbe accettato questa profezia. Nel dipinto, Maria ha la mano destra sulla schiena di Giovanni: se si analizza la posizione delle dita della Vergine si comprende che lei sta gentilmente cercando di trattenere Giovanni dall’avvicinarsi a Gesù mentre con l’altra mano, la sinistra, comincia un gesto protettivo: la mano infatti scende verso la testolina del Figlio, per proteggerlo. Vi è però una quarta figura nel dipinto, un angelo inginocchiato alla sinistra di Maria, che ci guarda e, con la sua mano destra, interrompe la discesa della mano della Vergine, indicando Giovanni. Leonardo ci sta dicendo che Maria, come madre, vorrebbe evitare la futura morte cruenta del Figlio e cerca di proteggerlo, ma questo gesto di protezione non potrà mai compiersi perché interviene un messo divino. Leonardo anziché mostrarci, come molti altri artisti hanno fatto, una Maria totalmente passiva, ci dice che questa giovane, purissima donna, chiamata ad essere la madre di Dio, alla fine accetterà il destino del Figlio e sarà accanto a Lui sotto la croce, ma nel momento in cui le viene annunciata la morte del Figlio ha istintivamente opposto resistenza. Leonardo illustra quella mente divisa, quella sorta di crisi spirituale di Maria di cui alcuni autori spirituali dell’epoca (siamo intorno al 1480) avevano scritto. Questa donna da una parte è la perfetta serva del Signore e accetterà tutto, dall’altra è una madre e, come tutte le madri, istintivamente vuole proteggere il proprio figlio. Questa lotta interiore è visibile sul volto teso di Maria: certo, sul volto non compare quella paura, quel terrore che avrebbe potuto dipingere un artista come Caravaggio, ma non vi è neppure quella perfetta e passiva dolcezza più tipica del secondo Quattrocento. Leonardo fa propria una domanda che molti continuano a porsi: Maria, che tutto ha accettato, cosa provava come madre? È ciò che Leonardo esplora».
Alla National Gallery di Londra è esposta un’altra versione della Vergine delle rocce. Quali le differenze con l’opera del Louvre?
«Quella presente alla National Gallery è una versione successiva e, se da un punto di vista catechetico è più esplicita, da quello psicologico è meno intensa. A prescindere dalle differenze di tecnica, che a molti studiosi ancora oggi suggeriscono si tratti di un’opera di bottega magari diretta da Leonardo ma materialmente eseguita dai suoi assistenti anche se con qualche tocco del maestro, chi ha dipinto la versione londinese ha voluto esplicitare l’idea di Leonardo mettendo in mano del piccolo Giovanni Battista la tradizionale croce: chiaramente dunque il Battista profetizza la passione, poiché la croce portata da Giovanni, nell’arte non solo fiorentina, indica la profezia che pronuncerà da adulto. Sul piano catechetico si tratta, come dicevo, di un vantaggio ma sul piano psicologico, drammaturgico, quella croce riduce l’immagine, la priva del fascino dell’opera del Louvre nella quale Leonardo obbliga lo spettatore a leggere con attenzione il dipinto rendendolo indimenticabile. Di primo acchito l’opera del Louvre sembra mostrare Maria che spinge i due bambini a giocare tra loro: quando però si analizzano le dita della Vergine e il rapporto tra Cristo e Giovanni ci si rende conto con un senso quasi di stupore della trama nascosta e a quel punto si legge il volto della Vergine con una comprensione diversa. Leonardo ha preparato un itinerario di scoperta nel quale la realtà profonda dei personaggi viene gradualmente dischiusa davanti allo spettatore e, così facendo, ha creato un’esperienza del tutto simile a quella vissuta da ogni essere umano: ognuno di noi, infatti, nella vita quotidiana deve compiere uno sforzo, fare fatica e riflettere per decifrare e cogliere il senso autentico dei gesti e delle espressioni delle persone: la comprensione dei moti dell’anima non è immediata, richiede tempo e impegno».
Leonardo tornerà sulla figura di Maria in grande disegno andato perduto, di cui scrive anche Giorgio Vasari.
«Certamente: si tratta di grande disegno, forse eseguito a Milano, che Leonardo portò con sé nel 1501, quando tornò a Firenze, ed espose nel convento dei padri serviti. Vasari racconta che l’intera città andò a vedere quest’opera che mostra Maria, seduta sulle ginocchia di sant’Anna, mentre tiene in braccio il piccolo Gesù che cerca di liberarsi dall’abbraccio materno per andare verso un agnello. Conosciamo la descrizione dettagliata del disegno da un contemporaneo di Leonardo, il carmelitano Pietro da Novellara, che a Firenze era l’agente della duchessa di Ferrara Isabella d’Este. In questo disegno Maria cerca di trattenere Gesù dall’abbracciare e quindi accettare la morte cruenta simboleggiata dall’agnello. Sant’Anna ha una mano alzata e con un dito indica il cielo: il frate, in una lettera alla duchessa d’Este, racconta di aver compreso che sant’Anna rappresenta la Chiesa nell’atto di insegnare alla figlia che la Chiesa ha bisogno della morte salvifica di Gesù: sant’Anna, indicando il cielo, sta affermando che la volontà del Padre è più importante di quella di Maria. Di questo disegno, andato perduto, esiste un’altra versione attualmente conservata alla National Gallery di Londra, che mostra lo stesso tema; vi è però una differenza: al posto dell’agnello vi è il piccolo Giovanni Battista e Gesù cerca di liberarsi dalle braccia della madre per abbracciarlo. Nel volto di Maria nuovamente si coglie quel combattimento interiore tra l’istinto materno e la perfetta oblazione alla volontà di Dio. A questi disegni segue poi un’opera, esposta al Louvre, che mostra Maria sulle ginocchia di sant’Anna e Gesù che cerca di abbracciare l’agnello: Leonardo tornò quindi all’idea sviluppata nel disegno andato perduto. Sant’Anna però non indica il cielo ma l’espressione del suo volto permette di capire che guarda la figlia con compassione intuendo la sua lotta interiore. Leonardo, in questa profonda analisi dell’animo di Maria, sviluppa un tema importante dell’umano, perché ogni madre, prima o poi, deve affrontare il momento in cui il proprio figlio si sentirà chiamato a fare qualcosa che potrà anche rappresentare un pericolo. Leonardo ci fa ragionare sulla figura di Maria in un modo nuovo e significativo per la nostra personale maturazione di fede».
Vasari, nella biografia di Leonardo, scrive che l’artista, ormai anziano, dopo una lunga malattia «e vedendosi vicino alla morte […] con molti pianti, confesso e contrito, sebbene e’ non poteva reggersi in piedi, sostenendosi nelle braccia d’i suoi amici e servi, volse divotamente pigliare il Santissimo Sacramento fuor del letto».
«Questo percorso interiore che porta Leonardo a cercare l’Eucaristia è assolutamente comprensibile poiché l’artista era vissuto immerso nel cristianesimo. Non dobbiamo dimenticare l’enorme forza di gravità della tradizione a quell’epoca: anche se Leonardo non era particolarmente religioso conosceva assai bene i Vangeli e la teologia perché era un pittore e ai pittori, in quel tempo, era chiesta questa conoscenza: come ho scritto anche in un mio libro, “Michelangelo teologo”, tutti gli artisti conoscevano la religione cristiana molto più delle comuni persone poiché la maggior parte delle commissioni proveniva dalla Chiesa la quale non si accontentava di interpretazioni banali dei fatti di fede. La sfida, per gli artisti, era trovare un modo nuovo, affascinante e aderente alle Scritture di narrare la fede cristiana».
In che modo Leonardo ha influenzato l’arte dei secoli successivi e quali artisti sono stati maggiormente segnati dalle sue opere?
«Distinguerei due livelli. Il primo, meno importante: Leonardo ha avuto un seguito, una sorta di scuola a Milano, città nella quale si era sviluppato come artista maturo tra il 1480 e la fine del secolo. Vi è una serie di opere che imitano il suo stile, che replicano le sue idee, opere eseguite da artisti lombardi quali Bernardino Luini e Marco D’Oggiono, che hanno avuto fama soprattutto in Lombardia. Vi è poi un secondo livello, meno facilmente definibile ma più importante. Leonardo nel 1501 tornò a Firenze e, prima di andare in Francia, visse, forse anche lavorò (sebbene non vi siano state commissioni ufficiali), alla corte pontificia di papa Giulio II ed è lecito supporre che mostrò le sue opere. Il suo stile, le sue idee circolarono e influenzarono il primo Cinquecento: in alcuni disegni, ad esempio, Michelangelo mostra chiaramente di ispirarsi al famoso disegno vinciano andato perduto. Anche Raffaello, che si recò a Firenze, creò la serie delle Madonne fiorentine in certo modo partecipando al fermento presente in città tra gli artisti animati dal desiderio di rispondere al disegno esposto da Leonardo nel 1501. Ma, soprattutto a Roma, Raffaello mostrò di aver compreso da Leonardo come svecchiare lo stile quattrocentesco in cui era stato educato dal Perugino. È a Roma infatti che Raffaello si rivela capace di usare un linguaggio molto più monumentale, fluido e vicino da una parte alla natura, dall’altra all’ideale della natura, che diventerà lo stile dell’alto rinascimento esportato nel resto dell’Europa. Si può dire che la maturazione dello stile di Raffaello va attribuita quasi certamente anche a una sua diretta esperienza delle opere di Leonardo».
Fonte: www.lastampa.it, 25 Aprile 2019